C’è qualcosa di profondamente stonato quando un momento pensato per unire, come gli auguri di Pasqua, si trasforma in un’occasione per dividere.
È quanto accaduto a Bedizzole, in provincia di Brescia, dove il dirigente scolastico di un istituto comprensivo ha deciso di scrivere una lettera al personale… ma non a tutto. Solo a una parte. Solo a chi, a suo dire, “non guarda l’orologio”, “non fa assenze strategiche”, “non ha mai avuto atteggiamenti conflittuali con la dirigenza”. Insomma, gli auguri sono arrivati selettivi, riservati a chi – secondo il metro personale del preside – si è mostrato sempre presente, disponibile, allineato.
La notizia, riportata da testate locali e rimbalzata poi sui social, ha fatto il giro dell’Italia scolastica in poche ore. E non poteva essere altrimenti, perché in quelle righe – magari scritte con convinzione, forse anche con frustrazione – si percepisce un’idea di scuola che lascia perplessi. Non tanto per la questione formale – il diritto o meno di scrivere in quel modo – ma per ciò che sottende: una visione della comunità scolastica come campo di battaglia morale, diviso tra “buoni” e “cattivi”, tra fedeli e sospetti, tra dediti e furbetti.
Ma siamo sicuri che sia questa la strada per costruire una scuola che educa, che accoglie, che guida? Siamo sicuri che un dirigente possa permettersi di escludere pubblicamente una parte del personale, magari senza alcuna contestazione formale, semplicemente sulla base di una valutazione soggettiva del comportamento?
Chi lavora nella scuola – e chi la racconta – sa bene quanto sia complesso oggi garantire continuità, equilibrio e partecipazione. Gli insegnanti e il personale ATA affrontano carichi burocratici crescenti, classi difficili, emergenze continue, e spesso lo fanno con risorse insufficienti. Anche i dirigenti vivono una pressione costante, tra scadenze amministrative e responsabilità enormi. Ma se c’è una cosa che non può mancare è il rispetto. Quel rispetto che si costruisce nel quotidiano, che si dimostra soprattutto quando le cose non vanno come dovrebbero.
La lettera del preside di Bedizzole, che nelle intenzioni voleva forse essere un riconoscimento per chi si spende di più, è diventata – purtroppo – un gesto divisivo. Lo hanno notato anche le famiglie, che hanno espresso disagio e disappunto, e lo hanno evidenziato i sindacati, ai quali la missiva è stata inviata insieme al sindaco del comune. Perché sì, anche i lavoratori della scuola, come in ogni altro settore, hanno diritti e tutele, a partire dalla libertà di cura, dal rispetto delle proprie condizioni personali e dalla possibilità – garantita dal contratto nazionale – di assentarsi nei limiti previsti dalla legge. Etichettare queste scelte come “strategiche” o “opportunistiche” senza alcun confronto diretto è qualcosa che va oltre la semplice opinione. È un giudizio morale, e in quanto tale rischia di essere lesivo, ingiusto, discriminatorio.
Ciò che colpisce, al di là della forma, è la sostanza: un messaggio che scivola dal ringraziamento alla classificazione, dalla gratitudine alla sentenza. In un tempo in cui il benessere organizzativo dovrebbe essere una priorità, in cui si parla (giustamente) di burnout, di stress da lavoro correlato, di relazioni professionali da valorizzare, episodi del genere ci riportano indietro. A una scuola autoritaria, verticale, in cui la fiducia cede il passo al sospetto.
Certo, nessuno nega che in ogni contesto lavorativo possano esserci situazioni difficili, comportamenti discutibili, criticità da affrontare. Ma esistono strumenti ben precisi per farlo: il dialogo, il confronto, le procedure disciplinari – se proprio necessario – ma sempre nel rispetto delle persone e dei loro diritti. La leadership, soprattutto in ambito educativo, si misura sulla capacità di includere, di motivare, di costruire ponti. Non di erigere muri.
Questa vicenda – che ha avuto il merito, almeno, di accendere un dibattito – ci invita a riflettere su quale idea di scuola vogliamo portare avanti. Se una comunità basata sul controllo e sul giudizio, o una realtà viva, umana, fatta di persone che collaborano, che a volte sbagliano, che spesso si sacrificano in silenzio, senza proclami.
Ecco, forse il miglior augurio pasquale, in fondo, sarebbe stato proprio questo: ricordarsi che la scuola è fatta di donne e uomini, non di etichette. E che il rispetto, anche quando non lo si condivide, è sempre la scelta più giusta. Anche – e soprattutto – quando si guida una comunità educante.
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